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LETTERA
ENCICLICA DEUS CARITAS EST DEL SOMMO
PONTEFICE BENEDETTO XVI AI VESCOVI AI
PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE E A TUTTI I FEDELI
LAICI SULL'AMORE CRISTIANO
INTRODUZIONE
1. « Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio
dimora in lui » (1 Gv 4,
16). Queste parole della Prima Lettera di
Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede
cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine
dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni
ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza cristiana: «
Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto
».
Abbiamo creduto all'amore di Dio — così il
cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio
dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì
l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo
orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva
espresso quest'avvenimento con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il
mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ...
abbia la vita eterna » (3, 16). Con la centralità dell'amore, la fede
cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d'Israele e al
contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza.
L'Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro del
Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della
sua esistenza: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore
è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta
l'anima e con tutte le forze » ( 6, 4-5). Gesù ha unito, facendone un
unico precetto, il comandamento dell'amore di Dio con quello dell'amore
del prossimo, contenuto nel Libro del
Levitico: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (19, 18;
cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv
4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la
risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro.
In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la
vendetta o perfino il dovere dell'odio e della violenza, questo è un
messaggio di grande attualità e di significato molto concreto. Per questo
nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore, del quale Dio ci
ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco così indicate
le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente connesse. La
prima avrà un'indole più speculativa, visto che in essa vorrei precisare —
all'inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali sull'amore che
Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all'uomo, insieme all'intrinseco
legame di quell'Amore con la realtà dell'amore umano. La seconda parte
avrà un carattere più concreto, poiché tratterà dell'esercizio ecclesiale
del comandamento dell'amore per il prossimo. L'argomento si presenta assai
vasto; una lunga trattazione, tuttavia, eccede lo scopo della presente
Enciclica. È mio desiderio insistere su alcuni elementi fondamentali, così
da suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta
umana all'amore divino.
PRIMA PARTE
L'UNITÀ DELL'AMORE NELLA CREAZIONE E NELLA STORIA
DELLA SALVEZZA
Un problema di linguaggio
2. L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la
vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi. Al riguardo, ci
ostacola innanzitutto un problema di linguaggio. Il termine « amore » è
oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale
annettiamo accezioni del tutto differenti. Anche se il tema di questa
Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della prassi
dell'amore nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non
possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa parola
possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno.
Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della
parola « amore »: si parla di amor di patria, di amore per la professione,
di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli,
tra fratelli e familiari, dell'amore per il prossimo e dell'amore per Dio.
In tutta questa molteplicità di significati, però, l'amore tra uomo e
donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere
umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge
come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista,
tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda: tutte
queste forme di amore alla fine si unificano e l'amore, pur in tutta la
diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece
utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente
diverse?
« Eros » e « agape » – differenza e unità
3. All'amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e
dal volere ma in certo qual modo s'impone all'essere umano, l'antica
Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che
l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre
il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative
all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape
— gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel
linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all'amore di
amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di
Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La
messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione
dell'amore che si esprime attraverso la parola agape, denota
indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale,
proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al
cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire
dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente
negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da
bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto
la spinta a degenerare in vizio.[1] Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione
molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende
forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di
divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci
offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?
4. Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero
distrutto l'eros? Guardiamo al mondo pre- cristiano. I greci —
senz'altro in analogia con altre culture — hanno visto nell'eros
innanzitutto l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «
pazzia divina » che strappa l'uomo alla limitatezza della sua esistenza e,
in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la
più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra
appaiono, così, d'importanza secondaria: « Omnia vincit amor »,
afferma Virgilio nelle Bucoliche — l'amore vince tutto — e
aggiunge: « et nos cedamus amori » — cediamo anche noi all'amore.[2] Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto
nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione « sacra »
che fioriva in molti templi. L'eros venne quindi celebrato come
forza divina, come comunione col Divino.
A questa forma di religione, che contrasta come potentissima
tentazione con la fede nell'unico Dio, l'Antico Testamento si è opposto
con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità.
Con ciò però non ha per nulla rifiutato l'eros come tale, ma ha
dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa
divinizzazione dell'eros, che qui avviene, lo priva della sua
dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono
donare l'ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e
persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la « pazzia
divina »: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa.
Per questo l'eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, « estasi »
verso il Divino, ma caduta, degradazione dell'uomo. Così diventa evidente
che l'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare
all'uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del
vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere
tende.
5. Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo
alla concezione dell'eros nella storia e nel presente. Innanzitutto
che tra l'amore e il Divino esiste una qualche relazione: l'amore promette
infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto
alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via
per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare
dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano
anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto
dell'eros, non è il suo « avvelenamento », ma la sua guarigione in
vista della sua vera grandezza.
Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell'essere
umano, che è composto di corpo e di anima. L'uomo diventa veramente se
stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida
dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione
è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare
la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo
perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e
quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde
ugualmente la sua grandezza. L'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva
a Cartesio col saluto: « O Anima! ». E Cartesio replicava dicendo: « O
Carne! ».[3] Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad
amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno
parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità,
l'uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l'amore —
l'eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.
Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato
di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo
senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi
oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro « sesso »
diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e vendere, anzi,
l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì
dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la
sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare
con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della
sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere
insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una
degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della
libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità
del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico.
L'apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso
la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo
sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano
a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì,
l'eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al
di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa,
di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.
6. Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino
di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l'amore, perché si
realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione
importante la possiamo trovare nel Cantico dei
Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici.
Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo
libro sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di
nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In
tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si
trovano due parole diverse per indicare l'« amore ». Dapprima vi è la
parola « dodim » — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro,
in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi
sostituita dalla parola « ahabà », che nella traduzione greca
dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono « agape »
che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la
concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e
ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che
diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere
egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura
dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione
nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa
rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.
Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti,
verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e
ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — « solo quest'unica
persona » — e nel senso del « per sempre ». L'amore comprende la totalità
dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non
potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo:
l'amore mira all'eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso
di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente
dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e
proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «
Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la
salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si
ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25;
Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il
suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla
resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore
e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio
personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con
queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana
in genere.
7. Le nostre riflessioni, inizialmente piuttosto
filosofiche, sull'essenza dell'amore ci hanno ora condotto per interiore
dinamica fino alla fede biblica. All'inizio si è posta la questione se i
diversi, anzi opposti, significati della parola amore sottintendessero una
qualche unità profonda o se invece dovessero restare slegati, l'uno
accanto all'altro. Soprattutto, però, è emersa la questione se il
messaggio sull'amore, a noi annunciato dalla Bibbia e dalla Tradizione
della Chiesa, avesse qualcosa a che fare con la comune esperienza umana
dell'amore o non si opponesse piuttosto ad essa. A tal proposito, ci siamo
imbattuti nelle due parole fondamentali: eros come termine per
significare l'amore « mondano » e agape come espressione per
l'amore fondato sulla fede e da essa plasmato. Le due concezioni vengono
spesso contrapposte come amore « ascendente » e amore « discendente ». Vi
sono altre classificazioni affini, come per esempio la distinzione tra
amore possessivo e amore oblativo (amor concupiscentiae – amor
benevolentiae), alla quale a volte viene aggiunto anche l'amore che
mira al proprio tornaconto.
Nel dibattito filosofico e teologico queste distinzioni
spesso sono state radicalizzate fino al punto di porle tra loro in
contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l'amore discendente,
oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana, invece,
soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente,
bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare
all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe
disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e
costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente
tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros
e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano
mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in
dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore,
tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se
l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente —
fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi
all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la
felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e
desidererà « esserci per » l'altro. Così il momento dell'agape si
inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua
stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente
nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve
anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono.
Certo, l'uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla
quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7, 37-38). Ma per
divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a
quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore
trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv 19, 34).
I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella
narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra
ascesa e discesa, tra l'eros che cerca Dio e l'agape che
trasmette il dono ricevuto. In quel testo biblico si riferisce che il
patriarca Giacobbe in sogno vide, sopra la pietra che gli serviva da
guanciale, una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e
scendevano gli angeli di Dio (cfr Gn 28, 12; Gv 1, 51).
Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa Gregorio Magno
dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore buono,
egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo
modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel
suo intimo, cosicché diventino sue: « per pietatis viscera in se
infirmitatem caeterorum transferat ».[4] San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a
san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e
proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr
2 Cor 12, 2-4; 1 Cor 9, 22). Inoltre indica l'esempio di
Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con
Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo
popolo. « Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si
lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in
contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur ».[5]
8. Abbiamo così trovato una prima risposta, ancora piuttosto
generica, alle due domande suesposte: in fondo l'« amore » è un'unica
realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l'una o l'altra
dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si
distaccano completamente l'una dall'altra, si profila una caricatura o in
ogni caso una forma riduttiva dell'amore. E abbiamo anche visto
sinteticamente che la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un
mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è
l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore
per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni. Questa
novità della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che
meritano di essere sottolineati: l'immagine di Dio e l'immagine
dell'uomo.
La novità della fede biblica
9. Vi è anzitutto la nuova immagine di Dio. Nelle culture
che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di dio e degli dei
rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino
della fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la
preghiera fondamentale di Israele, lo
Shema, riassume nelle parole: «
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo »
(Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della
terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa
precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono
Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da
Lui. Certamente, l'idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui
risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l'unico vero
Dio, Egli stesso, è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla
potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura
gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui « fatta ».
E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l'uomo.
La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò
di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del
desiderio e dell'amore — come realtà amata questa divinità muove il
mondo[6]—, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama,
soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede, invece, ama
personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i
popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire,
proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può
essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e
totalmente agape.[7]
Soprattutto i profeti Osea ed Ezechiele hanno descritto
questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche. Il
rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del
fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l'idolatria è adulterio e
prostituzione. Con ciò si accenna concretamente — come abbiamo visto — ai
culti della fertilità con il loro abuso dell'eros, ma al contempo
viene anche descritto il rapporto di fedeltà tra Israele e il suo Dio. La
storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che
Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura
dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo. Tale storia consiste
nel fatto che l'uomo, vivendo nella fedeltà all'unico Dio, sperimenta se
stesso come colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella
giustizia — la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: « Chi
altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra ... Il mio
bene è stare vicino a Dio » (Sal 73 [72], 25. 28).
10. L'eros di Dio per l'uomo — come abbiamo detto — è
insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del
tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è
amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione
dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga
l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso « adulterio », ha rotto
l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela
però che Dio è Dio e non uomo: « Come potrei abbandonarti, Efraim, come
consegnarti ad altri, Israele? ... Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia
ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il
Santo in mezzo a te » (Os 11, 8-9). L'amore appassionato di Dio per
il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona.
Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore
contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi
velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi
uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia
giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in
questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo
di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto
la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di
tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale — è al contempo un
amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l'eros
è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da
fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione
del Cantico
dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata
ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il
rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. In questo modo il Cantico dei
Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella
giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si
esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione
dell'uomo con Dio — il sogno originario dell'uomo –, ma questa
unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo
del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi — Dio e l'uomo —
restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi si
unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1
Cor 6, 17).
11. La prima novità della fede biblica consiste, come
abbiamo visto, nell'immagine di Dio; la seconda, con essa essenzialmente
connessa, la troviamo nell'immagine dell'uomo. Il racconto biblico della
creazione parla della solitudine del primo uomo, Adamo, al quale Dio vuole
affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può essere per l'uomo
quell'aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie selvatiche e a
tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così nel contesto
della sua vita. Allora, da una costola dell'uomo, Dio plasma la donna. Ora
Adamo trova l'aiuto di cui ha bisogno: « Questa volta essa è carne dalla
mia carne e osso dalle mie ossa » (Gn 2, 23). È possibile vedere
sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio,
anche nel mito riferito da Platone, secondo cui l'uomo originariamente era
sferico, perché completo in se stesso ed autosufficiente. Ma, come
punizione per la sua superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora
sempre anela all'altra sua metà ed è in cammino verso di essa per
ritrovare la sua interezza.[8] Nel racconto biblico non si parla di punizione;
l'idea però che l'uomo sia in qualche modo incompleto, costituzionalmente
in cammino per trovare nell'altro la parte integrante per la sua
interezza, l'idea cioè che egli solo nella comunione con l'altro sesso
possa diventare « completo », è senz'altro presente. E così il racconto
biblico si conclude con una profezia su Adamo: « Per questo l'uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno
una sola carne » (Gn 2, 24).
Due sono qui gli aspetti importanti: l'eros è come
radicato nella natura stessa dell'uomo; Adamo è in ricerca e « abbandona
suo padre e sua madre » per trovare la donna; solo nel loro insieme
rappresentano l'interezza dell'umanità, diventano « una sola carne ». Non
meno importante è il secondo aspetto: in un orientamento fondato nella
creazione, l'eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame
caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza
la sua intima destinazione. All'immagine del Dio monoteistico corrisponde
il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e
definitivo diventa l'icona del rapporto di Dio con il suo popolo e
viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell'amore umano.
Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non
trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa.
Gesù Cristo – l'amore incarnato di Dio
12. Anche se finora abbiamo parlato prevalentemente
dell'Antico Testamento, tuttavia l'intima compenetrazione dei due
Testamenti come unica Scrittura della fede cristiana si è già resa
visibile. La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma
nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti — un
realismo inaudito. Già nell'Antico Testamento la novità biblica non
consiste semplicemente in nozioni astratte, ma nell'agire imprevedibile e
in certo senso inaudito di Dio. Questo agire di Dio acquista ora la sua
forma drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la «
pecorella smarrita », l'umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle
sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita,
della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol
prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono
la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce
si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per
rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale.
Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni
(cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa
Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa
verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che
cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada
del suo vivere e del suo amare.
13. A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza
duratura attraverso l'istituzione dell'Eucaristia, durante l'Ultima Cena.
Egli anticipa la sua morte e resurrezione donando già in quell'ora ai suoi
discepoli nel pane e nel vino se stesso, il suo corpo e il suo sangue come
nuova manna (cfr Gv 6, 31-33). Se il mondo antico aveva sognato
che, in fondo, vero cibo dell'uomo — ciò di cui egli come uomo vive —
fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo Logos è
diventato veramente per noi nutrimento — come amore. L'Eucaristia ci
attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo
statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica
della sua donazione. L'immagine del matrimonio tra Dio e Israele diventa
realtà in un modo prima inconcepibile: ciò che era lo stare di fronte a
Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù,
partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione. La « mistica
» del Sacramento che si fonda nell'abbassamento di Dio verso di noi è di
ben altra portata e conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico
innalzamento dell'uomo potrebbe realizzare.
14. Ora però c'è da far attenzione ad un altro aspetto: la «
mistica » del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione
sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: «
Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo:
tutti infatti partecipiamo dell'unico pane », dice san Paolo (1 Cor
10, 17). L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli
altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso
appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o
diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e
così anche verso l'unità con tutti i cristiani. Diventiamo « un solo corpo
», fusi insieme in un'unica esistenza. Amore per Dio e amore per il
prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé.
Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome
dell'Eucaristia: in essa l'agape di Dio viene a noi corporalmente
per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire
da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente
l'insegnamento di Gesù sull'amore. Il passaggio che Egli fa fare dalla
Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell'amore verso Dio e verso
il prossimo, la derivazione di tutta l'esistenza di fede dalla centralità
di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere
autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel
Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come
un'unica realtà che si configura nell'incontro con l'agape di Dio.
La consueta contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel
« culto » stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l'essere amati e
l'amare a propria volta gli altri. Un' Eucaristia che non si traduca in
amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente —
come dovremo ancora considerare in modo più dettagliato — il «
comandamento » dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto
esigenza: l'amore può essere « comandato » perché prima è donato.
15. È a partire da questo principio che devono essere
comprese anche le grandi parabole di Gesù. Il ricco epulone (cfr Lc
16, 19-31) implora dal luogo della dannazione che i suoi fratelli
vengano informati su ciò che succede a colui che ha disinvoltamente
ignorato il povero in necessità. Gesù raccoglie per così dire tale grido
di aiuto e se ne fa eco per metterci in guardia, per riportarci sulla
retta via. La parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10, 25-37)
conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto
di « prossimo » era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai
connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d'Israele
e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo
limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il
mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane
tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si
riduce all'espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco
impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora. Rimane compito
della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra
lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri.
Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola
del Giudizio finale (cfr Mt 25, 31-46), in cui l'amore diviene il
criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita
umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri,
nudi, malati, carcerati. « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno
solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt
25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più
piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio.
Amore di Dio e amore del prossimo
16. Dopo aver riflettuto sull'essenza dell'amore e sul suo
significato nella fede biblica, rimane una duplice domanda circa il nostro
atteggiamento: è veramente possibile amare Dio pur non vedendolo? E:
l'amore si può comandare? Contro il duplice comandamento dell'amore esiste
la duplice obiezione, che risuona in queste domande. Nessuno ha mai visto
Dio — come potremmo amarlo? E inoltre: l'amore non si può comandare; è in
definitiva un sentimento che può esserci o non esserci, ma che non può
essere creato dalla volontà. La Scrittura sembra avallare la prima
obiezione quando afferma: « Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo
fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che
vede, non può amare Dio che non vede » (1 Gv 4, 20). Ma questo
testo non esclude affatto l'amore di Dio come qualcosa di impossibile; al
contrario, nell'intero contesto della Prima Lettera di
Giovanni ora citata, tale amore viene richiesto esplicitamente.
Viene sottolineato il collegamento inscindibile tra amore di Dio e amore
del prossimo. Entrambi si richiamano così strettamente che l'affermazione
dell'amore di Dio diventa una menzogna, se l'uomo si chiude al prossimo o
addirittura lo odia. Il versetto giovanneo si deve interpretare piuttosto
nel senso che l'amore per il prossimo è una strada per incontrare anche
Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche
di fronte a Dio.
17. In effetti, nessuno ha mai visto Dio così come Egli è in
se stesso. E tuttavia Dio non è per noi totalmente invisibile, non è
rimasto per noi semplicemente inaccessibile. Dio ci ha amati per primo,
dice la Lettera di
Giovanni citata (cfr 4, 10) e questo amore di Dio è apparso in
mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto Egli « ha mandato il suo Figlio
unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui » (1 Gv 4,
9). Dio si è fatto visibile: in Gesù noi possiamo vedere il Padre (cfr
Gv 14, 9). Di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio. Nella
storia d'amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di
conquistarci — fino all'Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce,
fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali
Egli, attraverso l'azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della
Chiesa nascente. Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non
è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro — attraverso uomini
nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti,
specialmente nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua
preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di
Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a
riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua
ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore.
Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi.
Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo « prima
» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi.
Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza
che l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il
sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la
totalità dell'amore. Abbiamo all'inizio parlato del processo delle
purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l'eros
diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della
parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le
potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua
interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può
suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza
dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra
volontà e il nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una
via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce
intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore. Questo
però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai
« concluso » e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e
proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem
nolle[9] — volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa,
è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto
dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla
comunanza del volere e del pensare. La storia d'amore tra Dio e l'uomo
consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in
comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la
volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per
me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma
è la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più
intimo a me di quanto lo sia io stesso.[10] Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la
nostra gioia (cfr Sal 73 [72], 23-28).
18. Si rivela così possibile l'amore del prossimo nel senso
enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io
amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche
conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con
Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a
toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona non
più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la
prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là
dell'apparenza esteriore dell'altro scorgo la sua interiore attesa di un
gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto
attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come
necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro
ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di
amore di cui egli ha bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra
amore di Dio e amore del prossimo, di cui la Prima Lettera di
Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto con Dio manca
del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro
e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se però nella mia
vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere
solamente « pio » e compiere i miei « doveri religiosi », allora
s'inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto
« corretto », ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro
al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio.
Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me
e su come Egli mi ama. I santi — pensiamo ad esempio alla beata Teresa di
Calcutta — hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo
sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico e, reciprocamente
questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua profondità proprio
nel loro servizio agli altri. Amore di Dio e amore del prossimo sono
inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell'amore
preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di un
« comandamento » dall'esterno che ci impone l'impossibile, bensì di
un'esperienza dell'amore donata dall'interno, un amore che, per sua
natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L'amore cresce
attraverso l'amore. L'amore è « divino » perché viene da Dio e ci unisce a
Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che
supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che,
alla fine, Dio sia « tutto in tutti » (1 Cor 15, 28).
SECONDA PARTE
CARITAS
L'ESERCIZIO DELL'AMORE DA PARTE DELLA
CHIESA QUALE « COMUNITÀ D'AMORE »
La carità della Chiesa come manifestazione dell'amore
trinitario
19. « Se vedi la carità, vedi la Trinità » scriveva
sant'Agostino.[11] Nelle riflessioni che precedono, abbiamo potuto
fissare il nostro sguardo sul Trafitto (cfr Gv 19, 37; Zc
12, 10), riconoscendo il disegno del Padre che, mosso dall'amore
(cfr Gv 3, 16), ha inviato il Figlio unigenito nel mondo per
redimere l'uomo. Morendo sulla croce, Gesù — come riferisce l'evangelista
— « emise lo spirito » (cfr Gv 19, 30), preludio di quel dono dello
Spirito Santo che Egli avrebbe realizzato dopo la risurrezione (cfr
Gv 20, 22). Si sarebbe attuata così la promessa dei « fiumi di acqua
viva » che, grazie all'effusione dello Spirito, sarebbero sgorgati dal
cuore dei credenti (cfr Gv 7, 38-39). Lo Spirito, infatti, è quella
potenza interiore che armonizza il loro cuore col cuore di Cristo e li
muove ad amare i fratelli come li ha amati Lui, quando si è curvato a
lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13, 1-13) e soprattutto quando
ha donato la sua vita per tutti (cfr Gv 13, 1; 15, 13).
Lo Spirito è anche forza che trasforma il cuore della
Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone dell'amore del
Padre, che vuole fare dell'umanità, nel suo Figlio, un'unica famiglia.
Tutta l'attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene
integrale dell'uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i
Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni storiche; e
cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell'attività umana.
Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente
incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini. È su
questo aspetto, su questo servizio della carità, che desidero
soffermarmi in questa seconda parte dell'Enciclica.
La carità come compito della Chiesa
20. L'amore del prossimo radicato nell'amore di Dio è
anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per
l'intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla
comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella
sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l'amore.
Conseguenza di ciò è che l'amore ha bisogno anche di organizzazione quale
presupposto per un servizio comunitario ordinato. La coscienza di tale
compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi: «
Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni
cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva
parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno » (At 2, 44-45). Luca
ci racconta questo in connessione con una sorta di definizione della
Chiesa, tra i cui elementi costitutivi egli annovera l'adesione all'«
insegnamento degli Apostoli », alla « comunione » (koinonia), alla
« frazione del pane » e alla « preghiera » (cfr At 2, 42).
L'elemento della « comunione » (koinonia), qui inizialmente non
specificato, viene concretizzato nei versetti sopra citati: essa consiste
appunto nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a
loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cfr anche
At 4, 32-37). Con il crescere della Chiesa, questa forma radicale di
comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta. Il
nucleo essenziale è però rimasto: all'interno della comunità dei credenti
non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i
beni necessari per una vita dignitosa.
21. Un passo decisivo nella difficile ricerca di soluzioni
per realizzare questo fondamentale principio ecclesiale diventa visibile
in quella scelta di sette uomini che fu l'inizio dell'ufficio diaconale
(cfr At 6, 5-6). Nella Chiesa delle origini, infatti, si era
creata, nella distribuzione quotidiana alle vedove, una disparità tra la
parte di lingua ebraica e quella di lingua greca. Gli Apostoli, ai quali
erano affidati innanzitutto la « preghiera » (Eucaristia e Liturgia) e il
« servizio della Parola », si sentirono eccessivamente appesantiti dal «
servizio delle mense »; decisero pertanto di riservare a sé il ministero
principale e di creare per l'altro compito, pur necessario nella Chiesa,
un consesso di sette persone. Anche questo gruppo però non doveva svolgere
un servizio semplicemente tecnico di distribuzione: dovevano essere uomini
« pieni di Spirito e di saggezza » (cfr At 6, 1-6). Ciò significa
che il servizio sociale che dovevano effettuare era assolutamente
concreto, ma al contempo era senz'altro anche un servizio spirituale; il
loro perciò era un vero ufficio spirituale, che realizzava un compito
essenziale della Chiesa, quello dell'amore ben ordinato del prossimo. Con
la formazione di questo consesso dei Sette, la « diaconia » — il servizio
dell'amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato —
era ormai instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa stessa.
22. Con il passare degli anni e con il progressivo
diffondersi della Chiesa, l'esercizio della carità si confermò come uno
dei suoi ambiti essenziali, insieme con l'amministrazione dei Sacramenti e
l'annuncio della Parola: praticare l'amore verso le vedove e gli orfani,
verso i carcerati, i malati e i bisognosi di ogni genere appartiene alla
sua essenza tanto quanto il servizio dei Sacramenti e l'annuncio del
Vangelo. La Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come
non può tralasciare i Sacramenti e la Parola. Bastino alcuni riferimenti
per dimostrarlo. Il martire Giustino († ca. 155) descrive, nel contesto
della celebrazione domenicale dei cristiani, anche la loro attività
caritativa, collegata con l'Eucaristia come tale. Gli abbienti fanno la
loro offerta nella misura delle loro possibilità, ognuno quanto vuole; il
Vescovo se ne serve poi per sostenere gli orfani, le vedove e coloro che a
causa di malattia o per altri motivi si trovano in necessità, come anche i
carcerati e i forestieri.[12] Il grande scrittore cristiano Tertulliano († dopo
il 220) racconta come la premura dei cristiani verso ogni genere di
bisognosi suscitasse la meraviglia dei pagani.[13] E quando Ignazio di Antiochia († ca. 117)
qualifica la Chiesa di Roma come colei che « presiede nella carità
(agape) »,[14] si può ritenere che egli, con questa definizione,
intendesse esprimerne in qualche modo anche la concreta attività
caritativa.
23. In questo contesto può risultare utile un riferimento
alle primitive strutture giuridiche riguardanti il servizio della carità
nella Chiesa. Verso la metà del IV secolo prende forma in Egitto la
cosiddetta « diaconia »; essa è nei singoli monasteri l'istituzione
responsabile per il complesso delle attività assistenziali, per il
servizio della carità appunto. Da questi inizi si sviluppa in Egitto fino
al VI secolo una corporazione con piena capacità giuridica, a cui le
autorità civili affidano addirittura una parte del grano per la
distribuzione pubblica. In Egitto non solo ogni monastero ma anche ogni
diocesi finisce per avere la sua diaconia — una istituzione che si
sviluppa poi sia in oriente sia in occidente. Papa Gregorio Magno († 604)
riferisce della diaconia di Napoli. Per Roma le diaconie sono
documentate a partire dal VII e VIII secolo; ma naturalmente già prima, e
fin dagli inizi, l'attività assistenziale per i poveri e i sofferenti,
secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti degli
Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma. Questo
compito trova una sua vivace espressione nella figura del diacono Lorenzo
(† 258). La descrizione drammatica del suo martirio era nota già a
sant'Ambrogio († 397) e ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l'autentica
figura del Santo. A lui, quale responsabile della cura dei poveri di Roma,
era stato concesso qualche tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e
del Papa, per raccogliere i tesori della Chiesa e consegnarli alle
autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro disponibile ai poveri e li
presentò poi alle autorità come il vero tesoro della Chiesa.[15] Comunque si valuti l'attendibilità storica di tali
particolari, Lorenzo è rimasto presente nella memoria della Chiesa come
grande esponente della carità ecclesiale.
24. Un accenno alla figura dell'imperatore Giuliano
l'Apostata († 363) può mostrare ancora una volta quanto essenziale fosse
per la Chiesa dei primi secoli la carità organizzata e praticata. Bambino
di sei anni, Giuliano aveva assistito all'assassinio di suo padre, di suo
fratello e di altri familiari da parte delle guardie del palazzo
imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione —
all'imperatore Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò
la fede cristiana risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto
imperatore, decise di restaurare il paganesimo, l'antica religione romana,
ma al contempo di riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la
forza trainante dell'impero. In questa prospettiva si ispirò ampiamente al
cristianesimo. Instaurò una gerarchia di metropoliti e sacerdoti. I
sacerdoti dovevano curare l'amore per Dio e per il prossimo. In una delle
sue lettere[16] aveva scritto che l'unico aspetto del
cristianesimo che lo colpiva era l'attività caritativa della Chiesa. Fu
quindi un punto determinante, per il suo nuovo paganesimo, affiancare al
sistema di carità della Chiesa un'attività equivalente della sua
religione. I « Galilei » — così egli diceva — avevano conquistato in
questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare.
L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una
caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa.
25. Giunti a questo punto, raccogliamo dalle nostre
riflessioni due dati essenziali:
a) L'intima natura della Chiesa si esprime in un
triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria),
celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità
(diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non
possono essere separati l'uno dall'altro. La carità non è per la Chiesa
una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche
lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione
irrinunciabile della sua stessa essenza.[17]
b) La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In
questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del
necessario. Al contempo però la caritas-agape travalica le
frontiere della Chiesa; la parabola del buon Samaritano rimane come
criterio di misura, impone l'universalità dell'amore che si volge verso il
bisognoso incontrato « per caso » (cfr Lc 10, 31), chiunque egli
sia. Ferma restando questa universalità del comandamento dell'amore, vi è
però anche un'esigenza specificamente ecclesiale — quella appunto che
nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel
bisogno. In questo senso vale la parola della Lettera ai
Galati: « Poiché dunque ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene
verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede » (6, 10).
Giustizia e carità
26. Fin dall'Ottocento contro l'attività caritativa della
Chiesa è stata sollevata un'obiezione, sviluppata poi con insistenza
soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non avrebbero
bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità — le
elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi
all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza,
conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti.
Invece di contribuire attraverso singole opere di carità al mantenimento
delle condizioni esistenti, occorrerebbe creare un giusto ordine, nel
quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano
più bisogno delle opere di carità. In questa argomentazione, bisogna
riconoscerlo, c'è del vero, ma anche non poco di errato. È vero che norma
fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia e
che lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel
rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È
quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della
Chiesa hanno sempre sottolineato. La questione del giusto ordine della
collettività, da un punto di vista storico, è entrata in una nuova
situazione con la formazione della società industriale nell'Ottocento. Il
sorgere dell'industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e
con la massa dei salariati ha provocato un cambiamento radicale nella
composizione della società, all'interno della quale il rapporto tra
capitale e lavoro è diventato la questione decisiva — una questione che
sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione e il
capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi,
comportava per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la
quale bisognava ribellarsi.
27. È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa
hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura
della società si poneva in modo nuovo. Non mancarono pionieri: uno di
questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza († 1877). Come
risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli, associazioni,
unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose, che
nell'Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie e le
situazioni di carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il
magistero pontificio con l'Enciclica Rerum
novarum di Leone XIII. Vi fece seguito, nel 1931, l'Enciclica di
Pio XI Quadragesimo
anno. Il beato Papa Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961,
l'Enciclica Mater
et Magistra, mentre Paolo VI nell'Enciclica Populorum
progressio (1967) e nella Lettera apostolica Octogesima
adveniens (1971) affrontò con insistenza la problematica sociale,
che nel frattempo si era acutizzata soprattutto in America Latina. Il mio
grande Predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato una trilogia di
Encicliche sociali: Laborem
exercens (1981), Sollicitudo rei
socialis (1987) e infine Centesimus
annus (1991). Così nel confronto con situazioni e problemi sempre
nuovi è venuta sviluppandosi una dottrina sociale cattolica, che nel 2004
è stata presentata in modo organico nel Compendio della dottrina
sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Consiglio Iustitia et
Pax. Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua
preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la
rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione —
si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo
diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile
nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione
dell'economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un'indicazione
fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di
essa: questi orientamenti — di fronte al progredire dello sviluppo —
devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano
seriamente dell'uomo e del suo mondo.
28. Per definire più accuratamente la relazione tra il
necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità, occorre
prendere nota di due fondamentali situazioni di fatto:
a) Il giusto ordine della società e dello Stato è
compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo
giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta
Agostino: « Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna
latrocinia? ».[18] Alla struttura fondamentale del cristianesimo
appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio
(cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come
dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali.[19] Lo Stato non può imporre la religione, ma deve
garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse
religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da
parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua
forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono
distinte, ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca
di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la
definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si
trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato
si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come
realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra
più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda
la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve
sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico,
derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un
pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la
fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un
incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio
della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la
ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi
accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette
alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere
meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale
cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato.
Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e
modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente
contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per
far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi
anche realizzato.
La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla
ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla
natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa
stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la
formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la
percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la
disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con
situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di
un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno
venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni
generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito
politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma
siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il
dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso
la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze
della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili.
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la
battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può
e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche
restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa
per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze
spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche
rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere
opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia
l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e
della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente.
b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario,
anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto
che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi
dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà
sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà
solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale
nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per
il prossimo.[20] Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe
tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può
assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno:
l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è
ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e
sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che
sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza
agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in
essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo.
Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche
ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno
materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture giuste
renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione
materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe « di
solo pane » (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia
l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano.
29. Così possiamo ora determinare più precisamente, nella
vita della Chiesa, la relazione tra l'impegno per un giusto ordinamento
dello Stato e della società, da una parte, e l'attività caritativa
organizzata, dall'altra. Si è visto che la formazione di strutture giuste
non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della
politica, cioè all'ambito della ragione autoresponsabile. In questo, il
compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla
purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le
quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere
operative a lungo.
Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella
società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato,
essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non
possono pertanto abdicare « alla molteplice e svariata azione economica,
sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere
organicamente e istituzionalmente il bene comune ».[21] Missione dei fedeli laici è pertanto di
configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima
autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive
competenze e sotto la propria responsabilità.[22] Anche se le espressioni specifiche della carità
ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta
tuttavia vero che la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli
laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come « carità
sociale ».[23]
Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono
invece un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale
essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente
responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura. La Chiesa
non può mai essere dispensata dall'esercizio della carità come attività
organizzata dei credenti e, d'altra parte, non ci sarà mai una situazione
nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché
l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore.
Le molteplici strutture di servizio caritativo
nell'odierno contesto sociale
30. Prima di tentare una definizione del profilo specifico
delle attività ecclesiali a servizio dell'uomo, vorrei ora considerare la
situazione generale dell'impegno per la giustizia e per l'amore nel mondo
odierno.
a) I mezzi di comunicazione di massa hanno oggi reso
il nostro pianeta più piccolo, avvicinando velocemente uomini e culture
profondamente diversi. Se questo « stare insieme » a volte suscita
incomprensioni e tensioni, tuttavia, il fatto di venire, ora, in modo
molto più immediato a conoscenza delle necessità degli uomini costituisce
soprattutto un appello a condividerne la situazione e le difficoltà. Ogni
giorno siamo resi coscienti di quanto si soffra nel mondo, nonostante i
grandi progressi in campo scientifico e tecnico, a causa di una multiforme
miseria, sia materiale che spirituale. Questo nostro tempo richiede,
dunque, una nuova disponibilità a soccorrere il prossimo bisognoso. Già il
Concilio Vaticano II lo ha sottolineato con parole molto chiare: « Oggi
che i mezzi di comunicazione sono divenuti più rapidi e le distanze fra
gli uomini quasi eliminate [...], l'azione caritativa può e deve
abbracciare tutti assolutamente gli uomini e tutte quante le necessità
».[24]
D'altro canto — ed è questo un aspetto provocatorio e al
contempo incoraggiante del processo di globalizzazione — il presente mette
a nostra disposizione innumerevoli strumenti per prestare aiuto umanitario
ai fratelli bisognosi, non ultimi i moderni sistemi per la distribuzione
di cibo e di vestiario, come anche per l'offerta di alloggio e di
accoglienza. Superando i confini delle comunità nazionali, la
sollecitudine per il prossimo tende così ad allargare i suoi orizzonti al
mondo intero. Il Concilio Vaticano II ha giustamente rilevato: « Tra i
segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e
inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli ».[25] Gli enti dello Stato e le associazioni umanitarie
assecondano iniziative volte a questo scopo, per lo più attraverso sussidi
o sgravi fiscali, gli uni, rendendo disponibili considerevoli risorse, le
altre. In tal modo la solidarietà espressa dalla società civile supera
significativamente quella dei singoli.
b) In questa situazione sono nate e cresciute, tra le
istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di collaborazione che si
sono rivelate fruttuose. Le istanze ecclesiali, con la trasparenza del
loro operare e la fedeltà al dovere di testimoniare l'amore, potranno
animare cristianamente anche le istanze civili, favorendo un coordinamento
vicendevole che non mancherà di giovare all'efficacia del servizio
caritativo.[26] Si sono pure formate, in questo contesto,
molteplici organizzazioni con scopi caritativi o filantropici, che si
impegnano per raggiungere, nei confronti dei problemi sociali e politici
esistenti, soluzioni soddisfacenti sotto l'aspetto umanitario. Un fenomeno
importante del nostro tempo è il sorgere e il diffondersi di diverse forme
di volontariato, che si fanno carico di una molteplicità di servizi.[27] Vorrei qui indirizzare una particolare parola di
apprezzamento e di ringraziamento a tutti coloro che partecipano in vario
modo a queste attività. Tale impegno diffuso costituisce per i giovani una
scuola di vita che educa alla solidarietà e alla disponibilità a dare non
semplicemente qualcosa, ma se stessi. All'anti-cultura della morte, che si
esprime per esempio nella droga, si contrappone così l'amore che non cerca
se stesso, ma che, proprio nella disponibilità a « perdere se stesso » per
l'altro (cfr Lc 17, 33 e par.), si rivela come cultura della
vita.
Anche nella Chiesa cattolica e in altre Chiese e Comunità
ecclesiali sono sorte nuove forme di attività caritativa, e ne sono
riapparse di antiche con slancio rinnovato. Sono forme nelle quali si
riesce spesso a costituire un felice legame tra evangelizzazione e opere
di carità. Desidero qui confermare esplicitamente quello che il mio grande
Predecessore Giovanni Paolo II ha scritto nella sua Enciclica Sollicitudo rei
socialis,[28] quando ha dichiarato la disponibilità della Chiesa
cattolica a collaborare con le Organizzazioni caritative di queste Chiese
e Comunità, poiché noi tutti siamo mossi dalla medesima motivazione
fondamentale e abbiamo davanti agli occhi il medesimo scopo: un vero
umanesimo, che riconosce nell'uomo l'immagine di Dio e vuole aiutarlo a
realizzare una vita conforme a questa dignità. L'Enciclica Ut unum sint
ha poi ancora una volta sottolineato che, per uno sviluppo del mondo
verso il meglio, è necessaria la voce comune dei cristiani, il loro
impegno « per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei
poveri, degli umiliati e degli indifesi ».[29] Vorrei qui esprimere la mia gioia per il fatto che
questo desiderio abbia trovato in tutto il mondo una larga eco in numerose
iniziative.
Il profilo specifico dell'attività caritativa della
Chiesa
31. L'aumento di organizzazioni diversificate, che si
impegnano per l'uomo nelle sue svariate necessità, si spiega in fondo col
fatto che l'imperativo dell'amore del prossimo è iscritto dal Creatore
nella stessa natura dell'uomo. Tale crescita, però, è anche un effetto
della presenza nel mondo del cristianesimo, che sempre di nuovo risveglia
e rende efficace questo imperativo, spesso profondamente oscurato nel
corso della storia. La riforma del paganesimo, tentata dall'imperatore
Giuliano l'Apostata, è solo un esempio iniziale di una simile efficacia.
In questo senso, la forza del cristianesimo si espande ben oltre le
frontiere della fede cristiana. È perciò molto importante che l'attività
caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva
nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice
variante. Ma quali sono, ora, gli elementi costitutivi che formano
l'essenza della carità cristiana ed ecclesiale?
a) Secondo il modello offerto dalla parabola del buon
Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò
che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata:
gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in
vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc. Le Organizzazioni
caritative della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas
(diocesana, nazionale, internazionale), devono fare il possibile, affinché
siano disponibili i relativi mezzi e soprattutto gli uomini e le donne che
assumano tali compiti. Per quanto riguarda il servizio che le persone
svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza
professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da saper fare
la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l'impegno del proseguimento
della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale
necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e
gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo
tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno
dell'attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative
della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad
eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano
all'altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi
sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione
professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la «
formazione del cuore »: occorre condurli a quell'incontro con Dio in
Cristo che susciti in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così
che per loro l'amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per
così dire dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che
diventa operante nell'amore (cfr Gal 5, 6).
b) L'attività caritativa cristiana deve essere
indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo
in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è
attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno. Il
tempo moderno, soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse
varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il
marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell'impoverimento:
chi in una situazione di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo
con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di
ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto,
sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi
bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene
contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status
quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel
presente viene sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui
effettiva realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l'umanizzazione
del mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a
comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto
facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne
sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito.
Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il
programma di Gesù — è « un cuore che vede ». Questo cuore vede dove c'è
bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità
del singolo deve aggiungersi, quando l'attività caritativa è assunta dalla
Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la
previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili.
c) La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in
funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è
gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi.[30] Ma questo non significa che l'azione caritativa
debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre
tutto l'uomo. Spesso è proprio l'assenza di Dio la radice più profonda
della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà
mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l'amore nella
sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel
quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è
tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare
solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si
rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché
amare. Egli sa — per tornare alle domande di prima —, che il vilipendio
dell'amore è vilipendio di Dio e dell'uomo, è il tentativo di fare a meno
di Dio. Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell'uomo consiste
proprio nell'amore. È compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa
rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso
il loro agire — come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro
esempio — diventino testimoni credibili di Cristo.
I responsabili dell'azione caritativa della
Chiesa
32. Infine, dobbiamo rivolgere ancora la nostra attenzione
ai già citati responsabili dell'azione caritativa della Chiesa. Nelle
precedenti riflessioni è ormai risultato chiaro che il vero soggetto delle
varie Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la
Chiesa stessa — e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie,
attraverso le Chiese particolari, fino alla Chiesa universale. Per questo
è stato quanto mai opportuno che il mio venerato Predecessore Paolo VI
abbia istituito il Pontificio Consiglio Cor unum quale istanza
della Santa Sede responsabile per l'orientamento e il coordinamento tra le
organizzazioni e le attività caritative promosse dalla Chiesa cattolica.
Alla struttura episcopale della Chiesa, poi, corrisponde il fatto che,
nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli
portino la prima responsabilità della realizzazione, anche nel presente,
del programma indicato negli Atti degli
Apostoli (cfr 2, 42-44): la Chiesa in quanto famiglia di Dio deve
essere, oggi come ieri, un luogo di aiuto vicendevole e al contempo un
luogo di disponibilità a servire anche coloro che, fuori di essa, hanno
bisogno di aiuto. Durante il rito dell'Ordinazione episcopale, il vero e
proprio atto di consacrazione è preceduto da alcune domande al candidato,
nelle quali sono espressi gli elementi essenziali del suo ufficio e gli
vengono ricordati i doveri del suo futuro ministero. In questo contesto
l'ordinando promette espressamente di essere, nel nome del Signore,
accogliente e misericordioso verso i poveri e verso tutti i bisognosi di
conforto e di aiuto.[31] Il Codice di Diritto
Canonico, nei canoni riguardanti il ministero episcopale, non
tratta espressamente della carità come di uno specifico ambito
dell'attività episcopale, ma parla solo in modo generale del compito del
Vescovo, che è quello di coordinare le diverse opere di apostolato nel
rispetto della loro propria indole.[32] Recentemente, tuttavia, il Direttorio
per il ministero pastorale dei Vescovi ha approfondito più
concretamente il dovere della carità come compito intrinseco della Chiesa
intera e del Vescovo nella sua Diocesi [33] ed ha sottolineato che l'esercizio della carità è
un atto della Chiesa come tale e che, così come il servizio della Parola e
dei Sacramenti, fa parte anch'essa dell'essenza della sua missione
originaria.[34]
33. Per quanto concerne i collaboratori che svolgono sul
piano pratico il lavoro della carità nella Chiesa, l'essenziale è già
stato detto: essi non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento
del mondo, ma farsi guidare dalla fede che nell'amore diventa operante
(cfr Gal 5, 6). Devono essere quindi persone mosse innanzitutto
dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato col suo
amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo. Il criterio ispiratore del
loro agire dovrebbe essere l'affermazione presente nella Seconda Lettera ai
Corinzi: « L'amore del Cristo ci spinge » (5, 14). La
consapevolezza che in Lui Dio stesso si è donato per noi fino alla morte
deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per
gli altri. Chi ama Cristo ama la Chiesa e vuole che essa sia sempre più
espressione e strumento dell'amore che da Lui promana. Il collaboratore di
ogni Organizzazione caritativa cattolica vuole lavorare con la Chiesa e
quindi col Vescovo, affinché l'amore di Dio si diffonda nel mondo.
Attraverso la sua partecipazione all'esercizio dell'amore della Chiesa,
egli vuole essere testimone di Dio e di Cristo e proprio per questo vuole
fare del bene agli uomini gratuitamente.
34. L'apertura interiore alla dimensione cattolica della
Chiesa non potrà non disporre il collaboratore a sintonizzarsi con le
altre Organizzazioni nel servizio alle varie forme di bisogno; ciò
tuttavia dovrà avvenire nel rispetto del profilo specifico del servizio
richiesto da Cristo ai suoi discepoli. San Paolo nel suo inno alla carità
(cfr 1 Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice
attività: « Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio
corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova » (v.
3). Questo inno deve essere la Magna Carta dell'intero servizio
ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso di
questa Lettera enciclica, ho svolto sull'amore.
L'azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende
percepibile l'amore per l'uomo, un amore che si nutre dell'incontro con
Cristo. L'intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza
dell'altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non
umilii l'altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso,
devo essere presente nel dono come persona.
35. Questo giusto modo di servire rende l'operatore umile.
Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all'altro, per
quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso
l'ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale
ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare
riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo
merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è
grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà
sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli
riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior
efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte
l'eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla
tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il
sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del
Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima
persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà
quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore.
È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio
solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però,
quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito
che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: « L'amore
del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
36. L'esperienza della smisuratezza del bisogno può, da un
lato, spingerci nell'ideologia che pretende di fare ora quello che il
governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la
soluzione universale di ogni problema. Dall'altro lato, essa può diventare
tentazione all'inerzia sulla base dell'impressione che, comunque, nulla
possa essere realizzato. In questa situazione il contatto vivo con Cristo
è l'aiuto decisivo per restare sulla retta via: né cadere in una superbia
che disprezza l'uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto
distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedirebbe di lasciarsi
guidare dall'amore e così servire l'uomo. La preghiera come mezzo per
attingere sempre di nuovo forza da Cristo, diventa qui un'urgenza del
tutto concreta. Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione
ha tutte le caratteristiche dell'emergenza e sembra spingere unicamente
all'azione. La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà o
addirittura contro la miseria del prossimo. La beata Teresa di Calcutta è
un esempio molto evidente del fatto che il tempo dedicato a Dio nella
preghiera non solo non nuoce all'efficacia ed all'operosità dell'amore
verso il prossimo, ma ne è in realtà l'inesauribile sorgente. Nella sua
lettera per la Quaresima del 1996 la beata scriveva ai suoi collaboratori
laici: « Noi abbiamo bisogno di questo intimo legame con Dio nella nostra
vita quotidiana. E come possiamo ottenerlo? Attraverso la preghiera ».
37. È venuto il momento di riaffermare l'importanza della
preghiera di fronte all'attivismo e all'incombente secolarismo di molti
cristiani impegnati nel lavoro caritativo. Ovviamente, il cristiano che
prega non pretende di cambiare i piani di Dio o di correggere quanto Dio
ha previsto. Egli cerca piuttosto l'incontro con il Padre di Gesù Cristo,
chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo Spirito in lui e
nella sua opera. La familiarità col Dio personale e l'abbandono alla sua
volontà impediscono il degrado dell'uomo, lo salvano dalla prigionia di
dottrine fanatiche e terroristiche. Un atteggiamento autenticamente
religioso evita che l'uomo si eriga a giudice di Dio, accusandolo di
permettere la miseria senza provar compassione per le sue creature. Ma chi
pretende di lottare contro Dio facendo leva sull'interesse dell'uomo, su
chi potrà contare quando l'azione umana si dimostrerà impotente?
38. Certo Giobbe può lamentarsi di fronte a Dio per la
sofferenza incomprensibile, e apparentemente ingiustificabile, presente
nel mondo. Così egli parla nel suo dolore: « Oh, potessi sapere dove
trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! ... Verrei a sapere le
parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di
potenza discuterebbe con me? ... Per questo davanti a lui sono atterrito,
ci penso ed ho paura di lui. Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente
mi ha atterrito » (23, 3. 5-6. 15-16). Spesso non ci è dato di conoscere
il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio invece di intervenire. Del
resto, Egli neppure ci impedisce di gridare, come Gesù in croce: « Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27, 46). Noi
dovremmo rimanere con questa domanda di fronte al suo volto, in dialogo
orante: « Fino a quando esiterai ancora, Signore, tu che sei santo e
verace? » (Ap 6, 10). È sant'Agostino che dà a questa nostra
sofferenza la risposta della fede: « Si comprehendis, non est Deus
» — Se tu lo comprendi, allora non è Dio.[35] La nostra protesta non vuole sfidare Dio, né
insinuare la presenza in Lui di errore, debolezza o indifferenza. Per il
credente non è possibile pensare che Egli sia impotente, oppure che « stia
dormendo » (cfr 1 Re 18, 27). Piuttosto è vero che perfino il
nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo e più
profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I
cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e
confusioni del mondo circostante, nella « bontà di Dio » e nel « suo amore
per gli uomini » (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini
nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi
nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane
incomprensibile per noi.
39. Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si
articola praticamente nella virtù della pazienza, che non vien meno nel
bene neanche di fronte all'apparente insuccesso, ed in quella dell'umiltà,
che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche nell'oscurità. La
fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in
noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In questo modo
essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura speranza
che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli
vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine
l'Apocalisse mostra in modo radioso. La fede, che prende coscienza
dell'amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce,
suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce — in fondo l'unica — che
rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di
agire. L'amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché
creati ad immagine di Dio. Vivere l'amore e in questo modo far entrare la
luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente
Enciclica.
CONCLUSIONE
40. Guardiamo infine ai Santi, a coloro che hanno esercitato
in modo esemplare la carità. Il pensiero va, in particolare, a Martino di
Tours († 397), prima soldato poi monaco e vescovo: quasi come un'icona,
egli mostra il valore insostituibile della testimonianza individuale della
carità. Alle porte di Amiens, Martino fa a metà del suo mantello con un
povero: Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno rivestito di quel
mantello, a confermare la validità perenne della parola evangelica: « Ero
nudo e mi avete vestito ... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno
solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt
25, 36. 40).[36] Ma nella storia della Chiesa, quante altre
testimonianze di carità possono essere citate! In particolare tutto il
movimento monastico, fin dai suoi inizi con sant'Antonio abate († 356),
esprime un ingente servizio di carità verso il prossimo. Nel confronto «
faccia a faccia » con quel Dio che è Amore, il monaco avverte l'esigenza
impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio,
tutta la propria vita. Si spiegano così le grandi strutture di
accoglienza, di ricovero e di cura sorte accanto ai monasteri. Si spiegano
pure le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana,
destinate innanzitutto ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima
gli Ordini monastici e mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili
e femminili, lungo tutta la storia della Chiesa. Figure di Santi come
Francesco d'Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis,
Vincenzo de' Paoli, Luisa de Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni
Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta — per fare solo alcuni nomi —
rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona
volontà. I santi sono i veri portatori di luce all'interno della storia,
perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore.
41. Tra i santi eccelle Maria, Madre del Signore e specchio
di ogni santità. Nel Vangelo di
Luca la troviamo impegnata in un servizio di carità alla cugina
Elisabetta, presso la quale resta « circa tre mesi » (1, 56) per
assisterla nella fase terminale della gravidanza. « Magnificat anima
mea Dominum », dice in occasione di questa visita — « L'anima mia
rende grande il Signore » — (Lc 1, 46), ed esprime con ciò tutto il
programma della sua vita: non mettere se stessa al centro, ma fare spazio
a Dio incontrato sia nella preghiera che nel servizio al prossimo — solo
allora il mondo diventa buono. Maria è grande proprio perché non vuole
rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere
nient'altro che l'ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa
di contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma
solo mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna
di speranza: solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza
di Israele, l'angelo può venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di
queste promesse. Essa è una donna di fede: « Beata sei tu che hai creduto
», le dice Elisabetta (cfr Lc 1, 45). Il Magnificat — un
ritratto, per così dire, della sua anima — è interamente tessuto di fili
della Sacra Scrittura, di fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela
che lei nella Parola di Dio è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra
con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio
diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio. Così si
rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di
Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente
penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola
incarnata. Infine, Maria è una donna che ama. Come potrebbe essere
diversamente? In quanto credente che nella fede pensa con i pensieri di
Dio e vuole con la volontà di Dio, ella non può essere che una donna che
ama. Noi lo intuiamo nei gesti silenziosi, di cui ci riferiscono i
racconti evangelici dell'infanzia. Lo vediamo nella delicatezza, con la
quale a Cana percepisce la necessità in cui versano gli sposi e la
presenta a Gesù. Lo vediamo nell'umiltà con cui accetta di essere
trascurata nel periodo della vita pubblica di Gesù, sapendo che il Figlio
deve fondare una nuova famiglia e che l'ora della Madre arriverà soltanto
nel momento della croce, che sarà la vera ora di Gesù (cfr Gv 2, 4;
13, 1). Allora, quando i discepoli saranno fuggiti, lei resterà sotto la
croce (cfr Gv 19, 25-27); più tardi, nell'ora di Pentecoste,
saranno loro a stringersi intorno a lei nell'attesa dello Spirito Santo
(cfr At 1, 14).
42. Alla vita dei Santi non appartiene solo la loro
biografia terrena, ma anche il loro vivere ed operare in Dio dopo la
morte. Nei Santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si allontana dagli
uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino. In nessuno lo vediamo
meglio che in Maria. La parola del Crocifisso al discepolo — a Giovanni e
attraverso di lui a tutti i discepoli di Gesù: « Ecco tua madre » (Gv
19, 27) — diventa nel corso delle generazioni sempre nuovamente vera.
Maria è diventata, di fatto, Madre di tutti i credenti. Alla sua bontà
materna, come alla sua purezza e bellezza verginale, si rivolgono gli
uomini di tutti i tempi e di tutte le parti del mondo nelle loro necessità
e speranze, nelle loro gioie e sofferenze, nelle loro solitudini come
anche nella condivisione comunitaria. E sempre sperimentano il dono della
sua bontà, sperimentano l'amore inesauribile che ella riversa dal profondo
del suo cuore. Le testimonianze di gratitudine, a lei tributate in tutti i
continenti e in tutte le culture, sono il riconoscimento di quell'amore
puro che non cerca se stesso, ma semplicemente vuole il bene. La devozione
dei fedeli mostra, al contempo, l'intuizione infallibile di come un tale
amore sia possibile: lo diventa grazie alla più intima unione con Dio, in
virtù della quale si è totalmente pervasi da Lui — una condizione che
permette a chi ha bevuto alla fonte dell'amore di Dio di diventare egli
stesso una sorgente « da cui sgorgano fiumi di acqua viva » (cfr Gv
7, 38). Maria, la Vergine, la Madre, ci mostra che cos'è l'amore e da dove
esso trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata. A lei affidiamo
la Chiesa, la sua missione a servizio dell'amore:
Santa Maria, Madre di Dio, tu hai donato al mondo la
vera luce, Gesù, tuo Figlio – Figlio di Dio. Ti sei consegnata
completamente alla chiamata di Dio e sei così diventata
sorgente della bontà che sgorga da Lui. Mostraci Gesù. Guidaci a
Lui. Insegnaci a conoscerlo e ad amarlo, perché possiamo anche
noi diventare capaci di vero amore ed essere sorgenti di acqua
viva in mezzo a un mondo assetato.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 dicembre, solennità
del Natale del Signore, dell'anno 2005, primo di Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
[1] Cfr Jenseits von Gut und Böse, IV, 168.
[2] X, 69.
[3] Cfr R. Descartes, Œuvres, a cura di V. Cousin,
vol. 12, Parigi 1824, pp. 95ss.
[4] II, 5: SCh 381, 196.
[5] Ibid., 198.
[6] Cfr Metafisica, XII, 7.
[7] Cfr Pseudo Dionigi Areopagita che, nel suo Sui nomi
divini, IV, 12-14: PG 3, 709-713, chiama Dio nello stesso
tempo eros e agape.
[8] Cfr Il Convito, XIV-XV, 189c-192d.
[9] Sallustio, De coniuratione Catilinae, XX, 4.
[10] Cfr sant'Agostino, Confessiones, III, 6, 11:
CCL 27, 32.
[11] De Trinitate, VIII, 8, 12: CCL 50,
287.
[12] Cfr I Apologia, 67: PG 6, 429.
[13] Cfr Apologeticum 39, 7: PL 1, 468.
[14] Ep. ad Rom., Inscr: PG 5, 801.
[15] Cfr sant'Ambrogio, De officiis ministrorum,
II, 28, 140: PL 16, 141.
[16] Cfr Ep. 83: J. Bidez, L'Empereur
Julien. Œuvres complètes, Parigi 19602, t. I,
2a, p. 145.
[17] Cfr Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il
ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22
febbraio 2004), 194: Città del Vaticano 2004, 2a, 205-206.
[18] De Civitate Dei, IV, 4: CCL 47,
102.
[19] Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 36.
[20] Cfr Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il
ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22
febbraio 2004), 197: Città del Vaticano 2004, 2a, 209.
[21] Giovanni Paolo II, Esort. ap. post sinodale
Christifideles laici (30 dicembre 1988), 42: AAS 81 (1989),
472.
[22] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota
dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento
dei cattolici nella vita politica (24 novembre 2002), 1:
L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2003, p. 6.
[23] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1939.
[24] Decr. sull'apostolato dei laici Apostolicam
actuositatem, 8.
[25] Ibid., 14.
[26] Cfr Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il
ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22
febbraio 2004), 195: Città del Vaticano 2004, 2a, 206-208.
[27] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. post sinodale
Christifideles laici (30 dicembre 1988), 41: AAS 81 (1989),
470-472.
[28] Cfr n. 32: AAS 80 (1988), 556.
[29] N. 43: AAS 87 (1995), 946.
[30] Cfr Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il
ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22
febbraio 2004), 196: Città del Vaticano 2004, 2a, 208.
[31] Cfr Pontificale Romanum, De ordinatione
episcopi, 43.
[32] Cfr can. 394; Codice dei Canoni delle Chiese
Orientali, can. 203.
[33] Cfr nn. 193-198, 204-210.
[34] Cfr Ibid., 194, 205-206.
[35] Sermo 52, 16: PL 38, 360.
[36] Cfr Sulpicio Severo, Vita Sancti Martini, 3,
1-3: SCh 133, 256-258.
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