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In quel tempo, di ritorno da Emmaus, i due discepoli riferirono ciò che era
accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Come ai discepoli
riuniti nella sera di Pasqua, Gesù apre anche a noi la mente all'intelligenza
delle Scritture. Non lo fa dall'alto di un pulpito o in una conferenza pubblica,
ma per strada, in quella sorta di peregrinare che è la nostra vita dove nel tu
per tu della confidenza reciproca, il cuore si apre all'ascolto di ogni fratello
che ha un'anima di verità da proporci. E nell’accompagnarci si farà ancora
riconoscere nello spezzare il pane: il messaggio di questa domenica è, come
ogni domenica, un messaggio pasquale.
Chi
apre il testo del vangelo sono appunto i due di Emmaus: l'esperienza
dell'incontro con Dio
si incontra in ciò che accade. È lui che viene incontro
e si affianca nel cammino (spesso arido e frustrante) del non compiuto. L'uomo
è chiamato a cogliere la presenza nuova di Dio sulla sua strada, in quel
viandante che si fa riconoscere attraverso i segni fondamentali per la vita
della comunità cristiana: la rilettura delle Scritture e la frazione del pane. La
storia umana, spazio privilegiato dell'azione di Dio, è storia di salvezza che
attraversa tutte le situazioni del vivere e lo scorrere dei secoli in una forma
di esodo perenne, carico della novità dell'annuncio. La
reazione dei discepoli sembra non raccordarsi bene con il racconto precedente
dal momento che essi credevano già nella risurrezione di Gesù sulla parola di
Pietro (v. 34). La loro
perplessità comunque non riguarda più la convinzione che Gesù è risorto, ma
la questione della natura corporea di Gesù risorto. E in tal senso non c'è
contraddizione nella narrazione. Era necessario per i discepoli fare una
esperienza intensa della realtà corporea della risurrezione di Gesù per
svolgere in modo adeguato la loro futura missione di testimoni della buona
notizia e chiarire le idee sul Risorto: non credevano che fosse Gesù in
persona, ma pensavano di vederlo solo in spirito. E’
il passaggio dal “sapere”, che Cristo è risorto, all’ “incontro” con
il Risorto. Davvero
la risurrezione interpella le mia vita concreta, l’autentica esperienza di
fede non è una esperienza “spirituale”. L’insistenza
dei vangeli sulla corporeità di Gesù risorto non è solo per sottolineare che
l’esperienza di Pasqua non è frutto di fantasia, ma soprattutto per ricordare
che la fede ha a che fare irrimediabilmente con il corpo concreto, con la vita
concreta, con il mangiare, il bere, il lavoro, gli affetti, gli impegni, il mio
tempo reale che sto vivendo oggi. Ecco
allora che queste considerazioni, dopo esserci soffermati per lungo tempo sulla
nostra personale umanità, avranno uno sguardo attento all’umanità che ci
circonda. “Il
Cristo dovrà patire...” Gesù
è venuto non per spiegare il mondo, ma per salvarlo. Per questo ha condiviso la
condizione umana. Se vogliamo incrociare il
Cristo e il suo messaggio dobbiamo dunque cercarlo non in una teologia astratta,
e neppure nella sociologia (modo di spiegare e interpretare la società) che sta
bene al sistema dei vincenti, ma all'interno della situazione esistenziale di
ogni persona. Il
Risorto lo si può incrociare solo nel cuore di un'etica intesa come ricerca
dell'autenticamente umano, un’etica
in cui la cura delle persone sia il culmine. Si
tratta di una condizione sofferente. Ce lo ripetiamo, anche se esiste il rischio del fastidio nel riscrivere questi dati: il 20% della popolazione mondiale ha in mano l'83% delle ricchezze disponibili sul pianeta; il 20% dei più poveri deve accontentarsi dell'1.4% delle risorse; 14 milioni di bambini muoiono prima di arrivare ai cinque anni di età; la globalizzazione sta rapidamente erodendo, grazie ad una rete mediatica sempre più invasiva, le culture locali originarie, imponendo modelli e “dogmi” irrispettosi dei valori e della storia; si fa rapidamente strada una "società del rischio" che implica la distribuzione dei mali piuttosto che dei beni della società, (tra i tanti, in questo recente triste anniversario di Chernobyl, abbiamo presente la "deterritorializzazione" dei rischi derivanti dalle radiazioni nucleari non più confinabili entro uno spazio specifico né entro un segmento di tempo); file di profughi si ingrossano ogni giorno per attraversare gli immensi continenti dell'Africa e dell'Asia e trovare improbabile lavoro e pane nei paesi ricchi; senza contare i tanti poveri e sofferenti in questa nostra parte di mondo, amici nostri prostrati da innumerevoli situazioni di disagio. Sì,
il Cristo dovrà patire. Gesù
soffre con tutti i sofferenti generati da situazioni di ingiustizia, assume la
forma dolorosa dell'esistenza di questo mondo, stando però non dalla parte di
coloro che trionfano e opprimono, ma da quella di coloro
che sono rifiutati, da coloro che si sentono esclusi, gli “impoveriti”
e i crocifissi della storia . Gesù
ha accettato questa vita, questa debolezza, questa morte. Tutti
noi sappiamo che scegliere gli ultimi della fila non è facile. Eppure
con il Cristo che ha sofferto, con la sua scelta rischiosa di stare dalla parte
delle vittime e degli ultimi, il Vangelo testimonia per l’eternità che Dio è
introvabile altrove. Dio,
in Cristo, ha scelto la sua parte, non esclude, ma è di parte. ”...e
il terzo giorno risuscitare da morte” Appunto
per "salvare" il mondo, per donare una speranza di vita, autentica
novità a questa umanità, Gesù è risuscitato. La sua risurrezione segna
la fine di ogni alienazione, perché non ha portato solo una salvezza
"spirituale", non ci ha indicato solo un aldilà; non ha definito che
l'esito finale, di questa immane storia di sofferenze, si limita all'immortalità
dell'anima e ad una pacificazione ultraterrena: questo sarebbe davvero
alienante. Gesù
non solo non ha assicurato il trionfo dei potenti, dei prepotenti e degli
oppressori, dei vincitori delle guerre (quasi che la storia umana fosse il
luogo di una "selezione naturale") ma ha chiaramente testimoniato che Dio accoglie i respinti, coloro che
soccombono, i fragili, i condannati a morte, i giustiziati, i senza potere, i
senza terra, i soli, i non amati, i disperati …“gli sbagliati”. Da
questo noi cristiani comprendiamo che Gesù è risorto: scoprendo la
risurrezione nella storia che si dipana sotto i nostri occhi; è una storia
sacra, perché storia della compagnia di Dio e di progressiva liberazione. ”Nel
suo nome sarà predicata la conversione...” Per
cogliere questo messaggio (che è tutt'altro che consolatorio) occorre un
cambiamento radicale di mentalità (la conversione). Convertirsi
significa accogliere una nuova visione di Dio, senza la quale è impossibile
accogliere una nuova visione dell'uomo. Il
Cristo ha inaugurato, con l'incarnazione, un nuovo modello religioso,
un'alleanza tra Dio e l'uomo, così che non è più possibile separare il volto
di Dio da quello della sua creatura. Se
questo è il Dio di Gesù, la conversione è un processo che interessa tutti: i
signori potenti e i poveri Lazzaro, coloro che cercano un compromesso tra
una religione alienata (e alienante)
con i privilegi di cui godono, e coloro che ogni giorno chiamano Dio in giudizio
per le loro sofferenze. Le
Chiese, oggi sempre più timide nell'accettare il cambiamento, sempre più
disposte a barattare la sicurezza del potere con la vera tradizione della fede,
i movimenti neo-conservatori (fondamentalisti) con l’opera dello Spirito, l’elemosina
con la giustizia …credono davvero, pur proponendola, a questa conversione
radicale? ”...e
il perdono dei peccati” Il
perdono è un processo difficile, che non rimuove il male compiuto e che dunque
richiede talvolta una vita per poter essere realizzato. Lo
sanno bene coloro che hanno seriamente intrapreso questo cammino. Il
perdono richiede di saper superare la legge, la stessa giustizia, senza negarla.
Richiede
la disposizione di saper amare gli altri così come sono e non come vorremmo che
fossero. Il perdono è l'atto più sublime che un uomo e una donna possono
compiere, il cuore della storia del singolo e dell'umanità. Non si improvvisa,
non è un gesto emotivo, ma razionale. Solo Dio è totalmente capace di perdono,
perché solo lui crea e ricrea. Eppure la nostra conversione non può essere
tale senza l'ispirazione a questo perdono totale, assoluto, di cui forse non
saremo mai capaci, ma che va implorato e cercato ogni giorno. E' questa tensione
che, in ultima analisi, ci fa testimoni della risurrezione di Gesù, che ci fa
dire a tutta voce, come continuava a ripetere frère Roger di Taizé, che “Dio
non può che amare.” Questa
tensione ci conduce a poco a poco alla pace, una pace attiva, ad una coscienza
serena pur nella sofferenza: Molti
dicono: "Chi ci farà vedere il bene"? Risplenda
su noi, Signore, la luce del tuo volto. In
pace mi corico e subito mi addormento: tu
solo, Signore, al sicuro mi fai riposare. (dal Sal 4, responsoriale di questa domenica).
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