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+ Dal Vangelo secondo Giovanni   15,1-8

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.

Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

Questi pochi versetti fanno parte del grande discorso di Gesù ai suoi discepoli nel momento intimo dell'ultima cena, inizia al cap. 13 e si prolunga fino a tutto il cap. 17. Si tratta di un testo molto profondo e inscindibile, che non ha pari in tutti gli Evangeli e che ricapitola in sé tutta la rivelazione di Gesù nella vita divina e nel mistero della Trinità. E’ il testo che dice quello che nessun altro testo delle Scritture è riuscito riguardo la vita cristiana, la sua potenza, i suoi compiti, la sua gioia e il suo dolore, la sua speranza e la sua lotta in questo mondo e nella Chiesa.

Pochi versetti, ma traboccanti d'amore, di quell'amore fino alla fine, che Gesù ha deciso di vivere verso i suoi, noi, tutti … ancora oggi e per sempre.

In forza di questo amore, quale supremo e definitivo gesto d’infinita tenerezza, il Signore lascia ai suoi una presenza nuova, un nuovo modo di esserci: la parabola della vite e dei tralci lo indica in modo potente. Attraverso la proclamazione del verbo “rimanere”  ripetuto più volte, Gesù dà inizio a questa sua storia nuova con ciascuno di noi: Egli non è più presso di noi, perché torna al Padre, ma rimane dentro di noi e con la sua presenza rende feconda la nostra vita.

 


Il pane, alimento vitale, moltiplicato perché tutti abbiano di che sfamarsi, pane che è frutto di un chicco caduto in terra, segno del dono totale che dona futuro, pane spezzato nella condivisione concreta della vita…

Ci si aspetterebbe quasi che il complemento di questa immagine fosse l’acqua, così essenziale, così vitale, onnipresente dove c’è vita… eppure, anche se Gesù parla dell’acqua viva che solo lui può darci (Gv 4,1-26), quando si dona a noi ci dona corpo e sangue: pane e vino!

Gesù non è acqua, è vino; ci dice dove cercare l’acqua che disseta la nostra continua sete (dentro di noi, nella verità della nostra vita: cammino tutt’altro che facile e scontato), ma lui si offre a noi come vino.

 

Noi sappiamo (immaginiamo almeno) gli effetti del vino, non sono uguali per tutti e nemmeno tutti dannosi.

Per molti, e da tempo immemorabile, il vino è stata la via più normale per superare i limiti e le strutture abituali in cui l’uomo è rinchiuso per la maggior parte del tempo.

Dioniso, un dio potente per i Greci, è il dio dell’estasi; il suo sangue è appunto il vino. Senza l’estasi, senza la possibilità di trascendere l’esistente, ognuno di noi si atrofizza, resta racchiuso nella “scatola del suo io”.

Per alcuni studiosi poi, uno dei compiti della religione sarebbe proprio quella di trovare l’estasi vera; Giovanni in questo testo del vangelo sembra offrirci una via cristiana dell’estasi.

Attraverso una profonda e autentica unione con Cristo rompiamo gli stretti limiti della nostra individualità ed entriamo in contatto, nella verità profonda del gesto d’amore gratuito, con la creatività illimitata del divino.

 

La proposta di Cristo è chiara: la sua parola ci libera da una sterile religione della legge e ci conduce a un’etica della creatività.

L’immagine della vite esprime l’aspetto gioioso del nostro cammino spirituale …quante volte ci dimentichiamo (in questa valle di lacrime) che la meta del nostro cammino è l’estasi della gioia nell’unione con Dio!

 

Nel suo vangelo Giovanni ci parla di diverse realtà riferite a Gesù e che hanno a che fare con la vita terrena, in questo testo annota:

“Io sono la vera vite…”

Non abbiamo più tempo per guardare le viti, i campi, gli alberi, la terra.

Forse c’è il tempo per stupirci della primavera, che improvvisa fiorisce ma non c’è tempo per sostare a contemplare e aspettare; aspettare che dal nostro cuore salgano le parole che ci facciano capire come anche questa terra continui a parlarci di vita, oltre che di morte.

Se osservo la vite, l’albero, la porta, il pane, se vado al fondo di tutto quel che è terreno, vi riconosco allora il mistero di Gesù, il mistero di Dio e dell’uomo.

Tutto si fa simbolo di Dio divenuto uomo in Gesù.

Tutto mi parla delle mille sfumature della croce e dei mille colori della risurrezione.

 

“Rimanete in me e io in voi…io sono la vite, voi i tralci…”

C'è una linfa vitale che sale dalla radice del mondo, ad un segnale di terra, di sole, di vento, a noi sconosciuto, una linfa che apre la corteccia che sembrava secca e morta e la incide di verdi germogli e di fiori.

Rimanere in Gesù, ripensare alle sue azioni, farle rivivere in noi, andare con il cuore e con la mente alla sua parola, anche quando tutto ci sembra dolore, fallimentare e senza senso, sentire la vita che da queste sue parole riprende vigore.

 

Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto…”

C’è uno Spirito che come linfa, percorre il mondo, sale lungo i ceppi delle vigne, risale le nostre vite: la nostra linfa vitale viene da prima …e va oltre di noi, viene da Dio, e si trasforma in frutti abbondanti.

Ed è professione di fede, sofferta e reale; viene da Dio, radice del vivere, e ci dice di aver bisogno di noi, dei nostri frutti per essere presenza e speranza in questo mondo straordinario e martoriato.

…e ce lo dice davvero, e ci parla di fecondità proprio quando noi ci sentiamo potati, sofferenti, a volte pieni di lacrime o furiosi per il dolore; e ci raggiunge con il sussurro della vita, anche quando stiamo urlando la nostra rabbia nell’apparente sterilità del nostro inverno.

 

“Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato”

…e va bene così come siamo.

Siamo stati creati buoni da Dio, abbiamo sbagliato, continuiamo a sbagliare: la nostra sofferenza e il nostro dolore ci parlano dei nostri limiti ma anche della vita e della speranza possibile. La parola, a cui siamo afferrati ancora, ci parla del bene e della fecondità della Sua presenza in noi, presenza che ci fa più forti e più tenaci degli errori e delle paure.

 

Da questo testo del vangelo siamo chiamati a cambiare, probabilmente in un modo più radicale di quel che a prima vista appare, i nostri criteri di “etico” e di “morale”.

Un’etica della creatività è quella che ci viene presentata dal vangelo: “la parola del Signore è come il vino che ci dà un senso d’ispirazione e ci soddisfa con un’ebbrezza che non è irragionevole, ma divina” (Origene), al di là degli schemi e dei consueti protocolli comportamentali socialmente-religiosamente corretti.

Una morale della fecondità: il nome nuovo, il nome vero della morale non è sacrificio, ma fecondità; non ubbidienza, ma contagio verso altri di una vita che urge dentro di noi, che ha sì le stigmate di Dio, ma anche abbondanti presagi di frutti.

 

Cosa vorrà dire questo(oltre gli angusti limiti della paura e dell’umanamente consueto), quale cambiamento di vita per la mia e per la tua vita, … lo chiediamo insieme nella liturgia eucaristica di questa domenica.