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+ Dal Vangelo secondo Matteo  9,9-13

 

In quel tempo, Gesù, passando, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”.
Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”.

La chiamata di Matteo – un pubblicano – (9, 9) introduce due controversie sul comportamento di Gesù: una con i farisei sul suo atteggiamento verso pubblicani e peccatori (9, 10-13) e una con i discepoli di Giovanni Battista sul digiuno (9, 14-17). Ognuna di esse diventa per Gesù occasione per presentarsi come autorità superiore e definitiva.

In qualsiasi cultura e certamente in quella medio orientale, sedere a mensa insieme è segno di comunione.

Matteo dice semplicemente che "Gesù sedeva a mensa in casa", facendo intendere che si tratta della casa di Gesù, la casa dove dimorava da quando, lasciata Nazaret venne ad abitare a Cafarnao (Mt 4,13). Quindi, secondo Matteo, è Gesù stesso che ospita a casa sua i pubblicani e i peccatori, come per anticipare il banchetto messianico della salvezza offerto a tutti.

Nella sua risposta ai farisei che lo criticano, Gesù cita una frase presa dal profeta Osea: "Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti" (6, 6 prima lettura di oggi). Nella scia di altri profeti (vedi ad esempio 1 Sam 15, 22; Am 5, 21-27; Is 1, 10-20; Ger 7, 1-15.21-28), Osea insiste sull'inutilità del culto esteriore se questo non è accompagnato dall'obbedienza all'alleanza.

La parola "misericordia" o "amore" traduce l'ebraico hesed che indica l'amore-fedeltà nella relazione tra Dio e il popolo. La "conoscenza di Dio", che Osea mette in parallelismo con "misericordia", implica l'obbedienza alla volontà di Dio espressa nella sua Legge; è un conoscere per mettere in pratica.

 

Oggi la logica rassicurante del dare e dell'avere sembra essere l’unica cosa importante, eppure quanti vuoti nei nostri cuori.

 

Il vangelo oggi ci parla di sguardi che si incrociano: una sola Parola e la vita di una persona cambia. Matteo cambia perché se ne va dietro a quell'uomo senza calcolare più nulla, senza neppure domandarsi dove sia diretto.

Matteo è naufragato negli occhi di Gesù; il contabile abbandona, per uno sguardo, per una parola tutte le sue sicurezze sociali ed economiche.

 

Una necessità emerge nella nostra vita: naufragare negli occhi di chi si ama, senza necessità di sapere dove, come e con che risorse.

Anche se vorremmo tanto conoscere le emozioni di Matteo, l'energia misteriosa di quelle parole, che cosa lo sedusse e cosa ne è stato dei suoi certi dubbi e ripensamenti; ma Matteo non parla di sé, il centro della scena deve essere Cristo: Segui Me.

 

Misericordia voglio e non sacrifici, amore e relazioni vere voglio e non atteggiamenti formali per tenere in piedi una recita.

L’amore e la misericordia non si spiegano né si capiscono ragionando: si vivono.

 

E queste parole senza perché, questa mancanza di ragioni, sono la vera ragione di chi è “discepolo della misericordia e dell’amore”.

È l’amore la causa, il senso, l'orizzonte ultimo.

È “amore” il nome della forza che fa partire.

 

Potremmo azzardare: se Matteo potesse rispondere, direbbe che si è convertito a Cristo, perché ha visto Cristo convertirsi a lui, fermarsi e girarsi dalla sua parte.

(…e io ho più di Matteo, di Cristo io ho la croce)

E percepiamo in profondità allora la dolcezza di quella casa piena di festa, di volti, di amici, e peccatori, chiamati ben prima di essere convertiti.

Convertiti perché chiamati.

 

Forse se vivessimo in modo più profondo e autentico la misericordia e l’accoglienza tra di noi, con i nostri figli, con coloro che sono trascurati e abbandonati, forse getteremmo le basi per una società più misericordiosa e accogliente, forse …se non aspettassimo sempre che gli altri facessero, forse …se facessimo noi, per primi, la scelta, forse …se guardassimo un po’ più a lungo la croce di Cristo, forse …

 

Non voglio sacrifici! La religione, quella autentica, frutto della misericordia, non è sacrificio: guarisce la vita, la fa risplendere.

Non è la mortificazione che dà lode a Dio, ma la vita piena, forte, vibrante.

L’amore mangia con me e mi assicura che il principio della salvezza non è nei miei digiuni, bensì nel suo mangiare con me.

Ci guarisce l’amore fermandosi con noi: la sua vicinanza è la medicina, il condividere vita, pane, festa, strada, sogni, comunione.

Solo la comunione dà la felicità, così tra amici, tra fratelli, nel matrimonio, così nella fede.

 

Voglio l'amore!  Questo è il grido di Dio …e il mio, il tuo, il nostro, il grido di tutti.

Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori.

Qual è il merito di noi peccatori?

Nessuno.

Siamo coloro che non ce la fanno, che non siamo all'altezza, ma che scopriamo un amore più grande del nostro cuore

 …e un Dio che in quest’amore si nasconde.

 

Dio non si merita, si accoglie.

 

Gesù ancora cerca il peccatore che è in me.

Assolvere una lista di peccati, per quanto lunga e impressionante, non gli basta.

Vuole esser con me, nella mia profonda debolezza.

E lì incarnarsi.

E io, finalmente accettando d'essere debole e di essere raggiunto nella mia debolezza, dimoro quietamente nella misericordia, verso un Regno pieno non di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come noi.

 

Non so quanto riuscirò ad entrare in questo orizzonte che si apre dinnanzi a me (affascinante ed al contempo esigente nella verità di me stesso) ma oggi mi godo la festa del peccatore che ha scoperto un Dio più grande del suo cuore.

 

Solo questo mi converte ancora