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Vilipendio

di cadavere

di Marco Travaglio

Ieri mattina, sciaguratamente, ho acceso la tv e mi

sono imbattuto su una rete Mediaset nella

telecronaca diretta del funerale di Raimondo

Vianello. Del grande attore scomparso, per sua

fortuna, non c’era traccia, essendo già ben chiuso nella

sua bara. In compenso imperversava dappertutto un altro

comico, anzi un guitto tragicomico con le gote avvizzite e

impiastricciate di fard fucsia e il capino spennellato di

polenta arancione, che officiava la cerimonia, dirigeva le

pompe funebri, smistava il traffico delle préfiche,

abbassava il cofano del carro, salutava la folla come Gerry

Scotti, poi nella chiesetta sbaciucchiava a favore di

telecamera la povera vedova pietrificata in carrozzella e

cercava di farla ridere con qualche battuta all’o re c ch i o ,

chiamava i battimani associandosi ai cori da stadio

“Raimondo Raimondo” sollecitati da Pippo Baudo: era il

presidente del Consiglio. Sul pratone di Milano2, un

maxischermo da concerto rock ingigantiva quelle

immagini raccapriccianti esponendole al “bell’applauso”

di una folla di curiosi armata di telefonini e videocamere

per immortalare la sfilata dei “vip”, come sulla banchina di

Porto Rotondo e nel dehors del Billionaire a Ferragosto.

Infatti, in quel festival di botulini e siliconi, incedeva

persino Lele Mora (Luciano Moggi, altro magister

elegantiarum, era passato il giorno prima in una pausa del

suo processo). Ho sperato con tutto il cuore che al grande

Raimondo, impegnato nell’ultimo viaggio, sia stata

risparmiata la vista di quello spettacolo sguaiato, volgare,

fasullo: l’esatto contrario della sua vita garbata, elegante,

ironica e autoironica. L’estremo oltraggio. Vianello era,

politicamente, un berlusconiano. Ma,

antropologicamente e artisticamente, era l’antitesi vivente

del berlusconismo. Infatti han dovuto aspettare che

morisse per coinvolgerlo, ormai impotente e incolpevole,

in una baracconata invereconda che ricorda il feroce

episodio de “I nuovi mostri” firmato da Scola, in cui Sordi,

guitto di provincia, recita l’elogio funebre del capocomico

al cimitero, sul bordo della tomba, rievocandone le

battute più grasse e pecorecce mentre tutt’intorno si

applaude e si sghignazza. Gli storici del futuro che

tenteranno di interpretare l’Italia di oggi non potranno

prescindere da quelle immagini, perché difficilmente

troveranno miglior reperto del nostro tempo: l’epoca dei

senza pudore e dei senza vergogna. Una bara sequestrata

da un anziano miliardario squilibrato, malamente pittato

da giovanotto, che si crede Napoleone e monopolizza la

scena con la stessa congenita volgarità con cui, proprio un

anno fa, passeggiava sui cadaveri dell’Aquila accarezzando

bambini, baciando vecchie, promettendo case e dentiere

nuove per tutti. Una povera vedova incerottata e distrutta

dalla malattia e dal dolore esposta alle telecamere e ai

megascreen mentre mormora “Raimondo, io sono qua”

senza neppure il diritto di farlo sottovoce, in penombra,

lontano da microfoni, occhi e orecchi invadenti, pronti a

trasformare tutto in “go s s i p ”. E, tutt’intorno, nessuno che

notasse lo scempio. Nemmeno un consigliere che

suggerisse al capo un po’ di raccoglimento, di

compostezza, di silenzio, o gli spiegasse che ai funerali

non c’è niente da ridere nè da applaudire. Men che meno

ai funerali di Vianello, al quale bastava e avanzava il

bellissimo necrologio bianco dettato dalla sua Sandra.

“Berlusconi – scrisse un giorno Montanelli – è talmente

vanesio che ai matrimoni vorrebbe essere la sposa e ai

funerali il morto”. Infatti, anche per evitare di ritrovarselo

cianciante alle sue esequie, il vecchio Indro lasciò detto

nelle sue ultime volontà: “Non sono gradite né cerimonie

religiose, né commemorazioni civili”. Forse Berlusconi

non se n’è accorto, ma ieri ha seppellito sguaiatamente

l’ultimo berlusconiano elegante e ironico rimasto in

circolazione. Se lo capisse, se ne preoccuperebbe più che

per il divorzio da Fini. Ma, se lo capisse, non sarebbe

Berlusconi.