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Stephen King aveva promesso che non avrebbe piu' scritto; poi disse che
l'aveva solo detto ma non aveva promesso che l'avrebbe fatto; insomma, come
disse il buon vecchio George Romney in *Good Morning America,*: *......Non ho
detto di non averlo detto. Ho detto che non avevo detto di
averlo detto. Spero di essermi spiegato.*
In effetti ha una sua logica, se letta bene; peccato non tenga conto della
regola piu' ferrea della logica; la regola del buonsenso.
Ora, e' chiaro che a noi *tifosi* di King, questa mancata promessa ha sempre
fatto piacere, in fondo, compreso a quelli che avevano visto in *Dreamcatcher*
e *Buick 8* dei fallimenti totali e che, quindi, temevano che il ritorno del re
si rivelasse piu' una vicenda simile a quella del reduce americano dalla guerra
in Giappone che ad un vero e proprio ritorno al trono.
E, d'altro canto, sia la conclusione della saga della Torre che *Colorado Kid*
non erano serviti a fugare alcun dubbio; entrambi i volumi hanno infatti frotte
di estimatori e frotte di detrattori in egual misura.
Inoltre, quelli erano due titoli atipici, l'uno gia' scritto (in teoria) in
precedenza, l'altro un'incursione in un genere
Insomma, questo fiammante *The Cell*, a conti fatti, era il
primo romanzo vero e proprio del King post*abbandono* e, quindi, era atteso al
varco con maggiori timori ma anche maggiori aspettative.
Com’e’ andata?
Beh, una cosa credo la si possa dire senza scontentare nessuno: King e’
sicuramente riuscito a non essere banale, a creare scompiglio e discussione tra
i fans e non.
Perche’, da una parte, e’
assolutamente vero che *Cell* e’ un lavoro kinghiano tipico; e’ pieno zeppo
di horror classico, a volte anche un po’ splatter ed onirico; ci sono i *phoners*
che fluttuano in stormi aerei e morti che non si contano certo su una mano sola
ma, via via che il romanzo scorre, vanno
prima in tripla e poi in quadruplice cifra.
Ed e’ fortunatamente anche pieno zeppo di scene da far accapponare la pelle
quali le orrende ed efficacissime morti del rettore Ardai, della piccola Alice e
di Ray Huzienga; scene che non si dimenticano e che, come dice l’amico BS82
fanno effettivamente non veder l’ora di vederle su un grande schermo (anche
se, pedantemente parlando, questo non solo non e’ un pregio in un romanzo, ma
sarebbe un teorico difetto).
Questo da una parte, pero’.
Perche’ dall’altra c’e’ un King nuovo, effettivamente, come ha rivelato
l’intelligente (poteva essere altrimenti?) recensione del Corriere della Sera.
Perche’ accanto a stereotipi dell’horror-classico-con-morti-in-massa che
l’autore aveva senz’altro sperimentato in *The Stand* e/o *Carrie* ed
accanto alla sua proverbiale abilita’ descrittiva, stavolta ci sono almeno un
tris di elementi nuovi
- Il
passo narrativo
King ci ha abituati a grandi
partenze che troppo spesso non trovano soluzione ed anzi si confondono ed
infangano in confusi e pirotecnici finali con troppi demoni e poca logica;
ricordiamo, per tutte, le memorabili dispersioni di mirabolanti inizi quali *dreamcatcher*
(la macchina che esce nella neve e l’ospite
misterioso che poi diventano *godzilla contro i 4 dell’ave maria* e *langoliers*
(l’agghiacciante risveglio nell’aereo vuoto che finisce a cartone animato di
bassa lega).
Stavolta e’ esattamente il
contrario: si parte con uno splatter che fa quasi passare la voglia di
continuare e non di rado ha momenti ridicoli o quantomeno esagerati (il cane
morso l’ho trovato penosissimo) ma poi, man mano che la storia si dipana, King
mostra la parte recondita della faccenda e le cose non sono non vengono risolte
a tarallucci e diavoli, ma diventano addirittura (per dirla col Corriere) un
attacco quasi politico alla societa’ americanista; una cosa un po’ alla *desperation
// regulators*, per intenderci.
- Il
finale
King ci aveva gia’ detto in
*Colorado Kid*: attenti, so fare anche questo!.
Ma dove li’ era semplice tentativo di maniera, abbozzo e assist al lettore per
discutere, qui il finale e’ *veramente* aperto.
Nel senso che alla fine quello che accade al piccolo Johnny puo’ essere
a)
niente
b)
torna normale o diverso da com'e'
c)
muore
Ma in ogni caso non puo’ essere che la fine cambi la storia nella sostanza
come potrebbe essere in *colorado*; anzi,
potrebbe essere qualcosa che porta ad un *Cell 2*; ma e’ chiaro quindi
che in questo caso piu’ che di finale aperto si deve parlare di finale
*sospeso*, che e’ un’altra cosa.
- Il
genere
Il terzo e’ conseguenza dei
primi due; se alla fine non arriva il maligno a dirci che i cellulari se li era
fatti fuori tutti lui, se alla fine
Clayton non muore ma male campa e forse Johnny diventa qualcosa di diverso da
quello che e’, beh, allora questo, piu’ che un romanzo a finale aperto, e’
un *romanzo* aperto tout court; e questo e’ senz’altro indice di maturita’
narrativa.
Era nato come un semplice
racconto horror, *The Pulse* (che qui e’ rimasto solo come primo capitolo,
come ben ricordava Alessio), ma poi si e’ sviluppato come un romanzo vero a
se’ stante, non come un edema discrasico del racconto originale.
Insomma, io l’ho iniziato la
bocca storta, l’ho proseguito un po’ perplesso, ma l’ho terminato con una
certa soddisfazione.
Non siamo certo ai fasti della meta’ anni ’90
con i veri capolavori kinghiani, dove il brivido incontrando il realismo
creo’ personaggi immortali come Misery e Dolores Claiborne, ma non siamo
nemmeno nel sonno della ragione di questo inizio millennio e dei romanzacci
d’appendice di cui e’ stato prolifico ad inizio carriera guadagnandosi una
non meritata ma comprensibile fama di scrittore di serie B.
Io gli sospendo il giudizio, tanto quanto lui ha appeso noi al destino di Johnny
e lo attendo al varco della storia
di Lisey tanto quanto noi attendiamo di sapere se Johnny muore o torna un *normie*.
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